Tra Gotico e Primavera: Impact Hub Roma e la Visione di Dario Carrera

In un’epoca in cui le imprese sono tipicamente delineate da bilanci, report finanziari, strategie vincenti e formule di marketing infinite, ci rivolgiamo agli imprenditori per offrire una prospettiva diversa. L’intento è esplorare l’ispirazione che anima ogni impresa. Insieme, cercheremo di immaginare le innumerevoli pennellate che hanno contribuito a delineare il business plan, la musica che ha accompagnato la nascita della strategia aziendale e i possibili colori del bilancio. In tal modo, sveleremo l’arte che si cela dietro ciascuna attività, trasformando il racconto aziendale in un autentico capolavoro.

Il nostro primo incontro è con Dario Carrera, fondatore di Impact Hub Roma e protagonista di questa storia. La prima domanda che gli pongo è: “Se la storia della tua impresa fosse una fiaba, come la faresti iniziare?”

E il suo racconto inizia così: “C’era una volta un ragazzo che desiderava creare le condizioni più favorevoli per conferire dignità al tempo dedicato al lavoro.”

Prosegue poi con queste parole:

Le atmosfere di questa fiaba sono più meccaniche rispetto a quelle di un racconto classico. Osservavo i miei cari e chi mi stava vicino, vedevo quello che diventava e quello che sarebbe potuto diventare l’habitat nel quale riconoscermi professionalmente. Vedevo i picchi di stress e le relazioni tossiche che si alimentavano. Tutto questo mi ha portato a cercare spazi fisici e virtuali che potessero fungere da filtro a questa tossicità, per creare relazioni nuove e più sane.

Mi sono incuriosito riguardo alla interpretazione del lavoro come un messaggio, anche politico, alla società; se vuoi agire da protagonista, interpreti il tuo lavoro non come un soldato, ma come qualcuno che può cambiare le regole del gioco. Lavorare in modo politico significa riconoscersi come un agente che contribuisce alla creazione di valore della società, accrescendone la qualità, in particolare la qualità della vita.

Occorre mettere le persone nelle condizioni di contribuire a questo cambiamento dello status quo. Bisogna creare habitat di confronto, dibattito, co-costruzione di soluzioni, dare dignità e valorizzare queste istanze, altrimenti relegate ai soli movimenti di piazza, e di pensiero che spesso non impattano concretamente sul piano reale per mancanza di continuità.

Tutta questa tossicità negli habitat professionali e il desiderio di dare più pragmaticità alle istanze dal basso, si sono riconosciuti nel tempo in uno spazio come quello di Impact Hub, che ho scoperto nel mio percorso di ricerca a Londra nel 2005. Questo spazio mi ha fatto scoprire la sintesi perfetta di quello che cercavo.

Fondato nel 2005 a Londra, Impact Hub è molto più di uno spazio fisico; è un’incubatrice di idee, un centro di aggregazione e un catalizzatore per l’innovazione sociale. Nato dall’idea di creare un luogo dove i pionieri dell’innovazione sociale potessero incontrarsi e collaborare, la sua espansione è stata resa possibile attraverso un modello di franchising. Questo modello ha permesso a individui e gruppi di tutto il mondo di adottare il marchio Impact Hub e creare spazi simili nei loro territori. Nel contesto italiano, Impact Hub svolge un ruolo fondamentale nel supportare progetti e  iniziative imprenditoriali che mirano a generare un impatto sociale positivo.

Le immagini che mi arrivano mentre Dario parla richiamano uno stile gotico; le atmosfere sono immerse nella nebbia londinese, con qualche raggio di sole che cerca di dissolverla. Il racconto prosegue seguendo le fasi storiche della sua impresa e della sua crescita personale, che avviene inevitabilmente.

Mentre prima c’era un afflato molto ideale e strettamente legato al principio che guidava l’azione, ora, con questa maturità, mi rendo conto che rispetto all’iniziale visione, ricca di colori, reazioni e profumi, oggi vedo una stagione molto contaminata dalle grandi istituzioni, siano esse pubbliche o private, oramai alfabetizzate verso quei processi, quei principi, quella semantica, quel linguaggio, e che pian piano, però, stanno cominciando a mangiarti spazio.

Quindi, per intenderci, prima eravamo veramente in pochi e molto polverizzati, anche se molto decisi e forti dal punto di vista dei contenuti, della radicalità delle idee e delle connessioni internazionali. Oggi siamo più numerosi, ma con meno spazio.

A questo punto, chiedo quali suoni e musiche accompagnerebbero il suo racconto.

La mia risposta è la musica elettronica, industriale. Oggi, invece, siamo di fronte a un genere industriale che cerca di imitare il sound di Sanremo. In passato, era qualcosa al confine tra legale e illegale. Ora è diventato qualcosa che può essere portato su un palco, ma lo vedi che è edulcorato.

Chiedo a Dario di provare a creare una sinfonia che meglio rappresenta il suo percorso professionale e quindi dividerla in movimenti.

Se dovessi strutturarlo in movimenti, l’apertura sarebbe caratterizzata da un suono di disturbo, con picchi molto forti. È un suono deciso che mi colpisce, ma evidentemente non fa bene. La risposta industriale è rappresentata dall’utilizzo di questo suono che fa male e che invita ad una reazione. Il secondo movimento metterebbe tutto in un percorso armonico, di un processo di elaborazione musicale elettronico, fino a farla diventare una danza molto coinvolgente che aggrega, che è anche una filosofia, una risposta alle distanze sociali. Il terzo movimento potrebbe essere una musica elettronica ben strutturata, leggermente più melodica, che si sta professionalizzando, che acquisisce nuovi suoni e sperimenta fusioni e ibridazioni interessanti. L’ultimo movimento rappresenta la legittimazione nei confronti del grande pubblico: ma per andare a Sanremo, devi pagare il dazio.

Dalla poltrona del festival di Sanremo, dove mi ha piazzato il racconto di Dario, osservo il suo racconto e chiedo di colorarlo.

L’approccio gotico mi convince abbastanza,” continua Dario, “quella tonalità dei grigi, seguita dai colori della primavera: arancio, giallo, rosa, fucsia, verde acido. La fase della maturità sarebbe rappresentata dai colori pastello, non più acrilici. Gli stessi colori, però un po’ più tenui. Oggi è qualcosa di bello da guardare, ma più ti avvicini a questo arazzo, più capisci che c’è stata una mano artificiale che ha reso annacquato il messaggio iniziale.”

Adesso sono curiosa di scoprire la corporatura di questa creatura, il suo modo di muoversi tra noi e, perché no, anche come si veste.

Il corpo della creatura è molto arioso, molto agile, molto elastico, anche un po’ schizofrenico nel suo agire. Per un periodo di tempo si trova ad essere un po’ sovrappeso, non in condizioni critiche, però sicuramente da tenere d’occhio. Oggi lo vedo che sta cercando un po’ la sua dieta, il suo nuovo movimento che lo renda un po’ più simile a quello che era in passato: agile, sinuoso, ma con la consapevolezza che lo stato dell’arte è cambiato radicalmente, e quindi deve adattarsi a delle condizioni che sono inevitabilmente mutate.

Ma è cambiato anche lo spazio circostante, così come la possibilità di agire e di muoversi in questo. Dove prima c’erano campi da calcio improvvisati, con gli zaini a fare da pali di porte immaginarie, oggi siamo all’interno di strutture verso le quali dobbiamo pagare per il nostro tempo: tutto è molto più formalizzato e a beneficio di chi è detentore di quello spazio, mentre prima era qualcosa di disponibile a prescindere. Vestiamo la nostra creatura con un mantello nero, a mo’ di Dracula, per intenderci. Ma un povero Dracula, che con il passare del tempo, abbandona il mantello per preferire  una felpa col cappuccio, vittima di una sorta di standardizzazione. La fase di maturità infine è ricercata, ma allo stesso tempo informale, più aperta ed accogliente e con una capacità di interlocuzione un po’ più sofisticata.

Ci avviciniamo alla conclusione del racconto di Dario e io sono curiosa di capire se il compromesso, che tante volte è emerso nel racconto, è vissuto nella sua impresa come un ostacolo oppure come una competenza acquisita da vivere con serenità. Inoltre, mi chiedo se è possibile avere un finale del racconto aperto.

Stiamo costruendo un nido con un cruscotto, che potrebbe essere messo a disposizione di nuovi agenti, i quali dovrebbero reinterpretare questo nuovo contesto con le condizioni attuali e agire di conseguenza, utilizzando anche le lezioni apprese, l’esperienza e gli strumenti che quel cruscotto offre. Quindi vedo l’agire di oggi orientato alla costruzione di una sorta di eredità, destinata in futuro ad altri protagonisti.

Quindi, un ragazzo che oggi partirebbe da quel “grigiume gotico” da cui sei partito tu, tra cinquant’anni dove lo vedresti?

Ecco, questo è interessante, ma è la mia personalissima visione dello stato delle cose. Ho l’opportunità di confrontarmi con ragazzi molto giovani che, magari tra uno, due o tre anni, affronteranno il mercato del lavoro. La mia preoccupazione è che non colgano questo tipo di sensibilità, come la lettura del ‘gotico’. Sembra che ci sia una sorta di nebbia di apatia che non li stimola a recuperare le forze e le risorse necessarie per dare una risposta. Questo è ciò che mi preoccupa di più ed è la ragione per cui facciamo fatica a coinvolgere risorse più giovani nel cavalcare una nuova onda.

Credo che l’azione da compiere sia proprio quella di mettere in moto un veicolo che percorra le strade per dissipare la nebbia e purificare l’aria, così da permettere a tutti di guardare, osservare, analizzare e quindi diventare consapevoli per poter poi generare una risposta. Non so, una sorta di ‘potabilizzazione’ per i ragazzi. La vedo come una sfida molto impegnativa, faticosa, ma non impossibile.

E’ possibile la costruzione di una nuova “primavera”? Mentre una dozzina di anni fa, probabilmente, le condizioni per la “fioritura di idee” risultavano proibitive in termini di accesso alle risorse,oggi, paradossalmente, il problema non è la loro disponibilità, ma il fatto che non sappiamo come usarle e dove indirizzarle, il che è ancora peggio. Questo mi preoccupa molto, mi mette in guardia rispetto alle aspettative da non impostare a un livello troppo alto, perché altrimenti andrei solo incontro a conflitti. Invece, devo essere comprensivo, riconoscere che c’è la nebbia e contribuire a diradarla per scatenare il senso di reazione e ottenere risposte adeguate ad un sentiero più lento, meno impaziente. Iniziare con una nuova filosofia, che si basi su quei principi e valori che hanno contraddistinto il cammino dell’azienda che ormai è in piedi da quattordici anni.

 

Cura dell’intervista e della fotografia: Suzana Zlatkovic